Descrizione
PRESENTAZIONE La nostra è un’epoca confusa. I ruoli tradizionali, quelli che conferivano ad ognuno la certezza e la stabilità del suo essere, sono stati messi in discussione fino a risultare svuotati di senso, e non abbiamo ancora nuove categorie nelle quali riconoscerci. La scuola, ed in particolare l’Università, rispecchiano in modo drammatico questo stato d’incertezza. L’insegnamento universitario della Medicina è stato fino a non molti anni fa regolato da precise norme, la maggior parte non scritte ma note ad ognuno: avevamo il potere assoluto dei “baroni” che governavano Istituti e Cliniche, e in qualche caso (o in molti?) condizionavano negativamente lo sviluppo e la diffusione della cultura. Ma le regole del gioco erano chiare e note a tutti fin dall’inizio; come chi mette gli sci ai piedi sa bene che potrà cadere e riportare fratture, chi entrava nel mondo universitario era conscio del fatto che avrebbe potuto trascorrere tutta la sua carriera nell’ombra. Ma, anche in questa condizione di crepuscolo, c’era abbastanza luce per lui: avrebbe avuto studenti a cui comunicare le proprie idee, laboratori dove provare le sue intuizioni, pazienti da curare anche per tentare di incamminarsi su vie migliori. Oggi queste certezze si sono dissolte. Si chiede ai medici universitari di essere soprattutto dediti all’attività assistenziale, assimilandoli sempre più agli ospedalieri: fra gli emblemi del nuovo paradigma vi sono le “aziende”, i DRG… Ci si potrebbe attendere che in questo panorama, dominato dall’ansia di “produrre”, la didattica conosca un inarrestabile declino, ma per fortuna ciò non accade; paradossalmente, anzi, l’insegnamento/apprendimento della Medicina può risultarne potenziato perché quelli che vi si dedicano non lo fanno per l’uniforme che indossano, ma per l’inarrestabile esigenza di comunicare. E allora si può insegnare indipendentemente dall’essere universitari, e si può riuscire nell’intento sia per l’espansione, prima inimmaginabile, delle possibilità di comunicare, sia perché i detentori usuali dell’insegnamento hanno perduto in gran parte il loro credito, sotto il tiro di chi pianificava l’appiattimento della cultura. Un uomo dedito a questo insegnamento “non tradizionale” è Francesco De Rosa. Chi presenta un libro “scientifico” si sofferma di solito a sottolineare la completezza dell’esposizione, l’originalità della trattazione, la chiarezza dell’iconografia, etc. Quando trovo, all’inizio di un volume, una prefazione di questo tipo, non vado oltre la terza riga, perché mi sembra inutile leggere cose ovvie. Non scriverò quindi parole di lode all’Autore, anche se sarebbero meritate: il consenso gli verrà dal lettore. Ma non posso non soffermarmi sullo spirito che ha governato il lavoro di De Rosa, sul desiderio di offrire ad altri, ben organizzato e “pronto da consumare”, quanto si è faticosamente riuscito ad ordinare e chiarire nella propria mente. Scrivere un libro con finalità didattica è uno dei modi più fruttuosi di insegnare: le parole non restano circoscritte ad un’aula sonnacchiosa popolata da giovani costretti a far atto di presenza, ma si diffondono attraverso la carta stampata, circolano su fotocopia, trasmigrano in dispense, navigano sui fili del telefono… Non è certamente il desiderio di guadagno o di notorietà che spingono a portare a termine un libro sulle tachicardie: chi si è cimentato con lo scrivere sa bene quante ore sia necessario sottrarre al sonno, allo svago, alla famiglia. Ma il volume fresco di stampa ripaga di ogni rinuncia, ed è con trepidazione che lo si licenzia perché se ne vada in giro per il mondo. Non mi resta che augurargli buona fortuna. Giuseppe Oreto
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